L’”umiltà intellettuale” può aiutare la medicina?

Un progetto di ricerca studia interventi per favorire la comunicazione tra medici e pazienti e migliorare le politiche sanitarie.

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L’abbiamo sperimentato in modo eclatante per tutto il tempo della pandemia, quando è andato in scena una sorta di dialogo tra sordi tra esperti e resto del mondo. Gli esperti tendevano ad accusare il pubblico di non sapere, non capire, e dunque non dare retta e non aderire alle raccomandazioni – dall’indossare la mascherina al vaccinarsi – con l’urgenza che il momento richiedeva. Il pubblico, più o meno consapevolmente, incolpava gli esperti di non rendersi conto dei bisogni, dei valori e delle aspettative della gente normale (quale rischio è accettabile nel vaccinare un figlio sano contro una malattia?). Se c’è una cosa che col senno di poi è stata chiara a tutti è che, in Italia ma non solo, la comunicazione non ha funzionato, e proprio nel momento in cui per l’attuazione di politiche sanitarie urgenti era cruciale che l’interazione si svolgesse correttamente.

Tradizionalmente, nell’analizzare l’interazione tra esperti e non, l’attenzione viene focalizzata sulle mancanze dei non esperti (per esempio i loro “bias” impliciti, cognitivi, o di altro  genere). Di rado ci si concentra sui possibili pregiudizi e sulle mancanze degli esperti nel loro ruolo di comunicatori. Come diversi studi e ricerche stanno mettendo in luce, tra i fattori in gioco nel compromettere la comunicazione potrebbe esserci anche la disposizione (o la mancata disposizione) ad ammettere che non sempre le proprie conoscenze consentono di valutare correttamente contesti e situazioni. In parole povere, ad ammettere che ci si può sbagliare. Per questa sorta di apertura mentale alle novità e di predisposizione a cambiare la propria opinione e ad accogliere quelle degli altri esiste una definizione: “umiltà intellettuale”. A differenza di quello che intendiamo comunemente con il termine umiltà, non si tratta tanto di una caratteristica morale, ma proprio della capacità cognitiva di riconoscere i limiti della propria conoscenza e rendersi conto se e quando è il momento di cambiare idea.

Tutta la storia del pensiero è costellata di ammonimenti contro i rischi della presunzione intellettuale. Il filosofo francese Michel de Montaigne scrisse che una delle piaghe dell’uomo è il vantarsi della sua conoscenza. In tempi più recenti, gli psicologi hanno cercato di capire perché alcune persone si aggrappino ostinatamente alle proprie convinzioni, anche quando vengono presentate prove apparentemente inconfutabili che hanno torto, mentre altre sembrino più disponibili a rivedere le proprie idee, e ad adottarne di diverse quando le circostanze lo richiedono. I ricercatori di diversi ambiti – dalla psicologia, alla filosofia, alle scienze sociali – stanno cercando di riportare in auge e approfondire questo concetto, convinti che possa essere d’aiuto ad arginare alcuni fenomeni negativi della società di oggi, dalla polarizzazione eccessiva delle opinioni ai problemi di comunicazione tra esperti e resto della società visti ad esempio – ma certo non esclusivamente –  nel periodo della pandemia.

Il gruppo MInD (Models, Inferences and Decisions) dell’unità di ricerca MoMiLab ha appena vinto un finanziamento della Templeton Foundation, una fondazione americana che sostiene progetti di ricerca a cavallo tra filosofia, teologia e scienze, per studiare se l’umiltà intellettuale, e i suoi effetti positivi, possano essere favoriti da interventi specifici, e se possano portare miglioramenti nell’ambito della  comunicazione tra medici e pazienti. “Quello che cerchiamo di capire è se il concetto di umiltà intellettuale, che finora ha interessato soprattutto i filosofi, possa venir studiato con metodi empirici e avere ricadute nella pratica della comunicazione scientifica” spiega Gustavo Cevolani, professore di logica e filosofia della scienza alla Scuola IMT. Il punto di partenza è comprendere se l’umiltà intellettuale sia in relazione – e in quale relazione – con un concetto che è stato molto più studiato dal punto di vista psicologico e cognitivo,  la cosiddetta illusione di capire (illusion of understanding). L’illusione di capire è il divario tra la comprensione reale che una persona ha di un certo argomento e la sua valutazione soggettiva di tale comprensione. In parole povere, si tratta delle distanza tra ciò che uno effettivamente sa, e ciò che crede di sapere. Questa distanza può riguardare sia il pubblico non esperto, che per esempio ritiene di avere un bagaglio di conoscenze sufficiente a valutare i meccanismi di funzionamento di un vaccino, sia gli esperti stessi, per esempio i medici che credono di conoscere e danno per scontate le aspettative dei loro pazienti riguardo a certi trattamenti o terapie. Il progetto dei ricercatori del MoMiLab è applicare questi concetti all’ambito medico e sanitario, per progettare interventi che migliorino la comunicazione ma anche gli esiti delle politiche sanitarie.

Ma come si passa dal riconoscere che ciascuno di noi – esperti inclusi – non sa e non può sapere tutto, e che può molto spesso sbagliarsi, a evitare un comportamento inappropriato da parte di un medico, magari ridurre le prescrizioni di antibiotici nei casi in cui non servono, oppure aumentare la soddisfazione di un paziente per le terapie che gli vengono proposte? “Possiamo provare a farlo disegnando uno studio specifico. Il primo passo è testare attraverso esperimenti se ridurre l’illusione di capire può aiutare ad aumentare l’umiltà intellettuale” spiega Federica Ruzzante, dottoranda in neuroscienze cognitive, sociali e computazionali alla Scuola IMT, che lavora al progetto di ricerca. “Abbiamo progettato un test in più fasi: prima individueremo i temi su cui la popolazione generale crede di capire più di quello che in realtà capisce, e quelli su cui i medici pensano di conoscere le opinioni e le conoscenze del pubblico, senza in realtà averne una buona conoscenza”. Verrà chiesto a un gruppo di partecipanti di fornire una stima della loro comprensione di alcuni temi sanitari; in seguito verrà testata la loro conoscenza reale con dei veri e propri quiz e, infine, verrà chiesto di nuovo di esprimere la loro comprensione del fenomeno. “La ricerca ci dice che le persone, se messe di fronte alla necessità di recuperare informazioni su una materia, come appunto per rispondere a un test, si accorgono che forse avevano sovrastimato il proprio bagaglio di conoscenza”. “Gli esperti verranno testati in maniera molto simile, ponendo  domande come ‘quanto credi di comprendere l’atteggiamento delle persone verso gli antibiotici?’, e in seguito chiedendo di fornire delle stime, per esempio: ‘su 100 persone, quante credi abbiano una posizione contraria all’utilizzo degli antibiotici?’” aggiunge Folco Panizza, assegnista di ricerca presso la scuola e secondo coordinatore del progetto. “A breve cominceremo con la selezione e la preparazione dei materiali, per capire su quali argomenti c’è un divario maggiore tra esperti e profani”.

“Ci aspettiamo” conclude Ruzzante “che mettere le persone di fronte alla propria illusione di capire possa stimolare non solo dubbi sulla propria comprensione dell’argomento specifico, ma anche lo sviluppo di un generale atteggiamento critico e autocritico. Un bagno di umiltà… intellettuale, insomma”.

Chiara Palmerini

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