
L’avvento di nuovi strumenti telematici, la diffusione di connessioni sempre più veloci e la spinta data dalla pandemia hanno reso sempre più diffuse le forme di lavoro da remoto, come lo smart working e il telelavoro. Questo cambio di paradigma ha avuto molti impatti sulla vita di aziende e lavoratori, alcuni positivi, alcuni negativi, altri ancora poco compresi.
Il progetto dal titolo “The emission footprint of telework: when is it sustainable?”, promosso dall’Open Lab della Scuola IMT, si propone di studiare un aspetto ancora poco compreso del lavoro da remoto, ovvero il suo impatto ambientale, in particolare le emissioni di gas inquinanti.
La ricerca parte da una domanda che, anche se apparentemente semplice, è ancora senza risposta: il lavoro a distanza è davvero associato a una diminuzione delle emissioni di gas inquinanti? Intuitivamente il lavoro a distanza sembrerebbe avere un minore impatto sull’ambiente, dato che, soprattutto quando svolto da casa, richiede meno spostamenti, e quindi in teoria minori emissioni.
“I benefici evidenziati possono essere legati a riduzione del commuting verso il luogo di lavoro, o al fatto che il datore di lavoro può adottare delle soluzioni organizzative per razionalizzare gli spazi di lavoro e conseguire dei risparmi a livello energetico”, spiega Valentina Pieroni, ricercatrice in Business Administration alla Scuola IMT e principal investigator del progetto.
Gli studi presenti in letteratura presentano però anche evidenze contrastanti. Emerge per esempio un fenomeno, quello dei cosiddetti rebound effects, gli effetti di rimbalzo: “Empiricamente è stato riscontrato che chi fa lavoro a distanza può adottare dei comportamenti che finiscono per controbilanciare gli effetti positivi”, osserva Pieroni. “Ad esempio, potendo organizzare in modo flessibile la giornata lavorativa, le persone assumono abitudini di spostamento diverse, si spostano con una maggior frequenza o su distanze più lunghe, partendo e tornando sempre da casa invece di integrare gli spostamenti all’interno del commuting lavorativo”.
Rispetto agli studi esistenti, quello in corso all’Open Lab utilizza uno strumento innovativo, la cosiddetta fenotipizzazione digitale: i dati sul comportamento delle persone vengono raccolti tramite dispositivi digitali come gli smartphone o altri dispositivi indossabili. Nello studio in questione, i dati vengono raccolti attraverso un’applicazione chiamata Beiwe, sviluppata dall’università di Harvard, in grado di proteggere l’anonimato. L’applicazione installata sullo smartphone, tramite il GPS e l’accelerometro, raccoglie informazioni sugli spostamenti, in modo da fare una stima oggettiva delle emissioni. A questi dati si aggiungono quelli legati ai consumi domestici: “Con un questionario, raccogliamo informazioni sulle abitudini di consumo energetico domestico, per vedere se c’è un effetto riscontrabile anche da questo punto di vista”.
Lo studio è attualmente nelle fasi preliminari: si sta selezionando il campione di persone con cui partire per una raccolta dati di un mese. Il campione sarà composto anche da persone che non praticano lavoro a distanza, o persone che lo praticano con una diversa intensità. L’obiettivo è quello di creare un dataset longitudinale, raccogliendo dati riguardanti uno stesso campione in momenti successivi, per osservare la variazione dei comportamenti nel tempo. “Questo ci permette di studiare la variazione delle emissioni associata allo svolgimento di lavoro a distanza, sia esaminando come cambiano le abitudini degli stessi individui quando lavorano da remoto rispetto a quando sono in ufficio, sia confrontando soggetti diversi tra loro”.
Dei partecipanti allo studio saranno raccolti anche i dati demografici, come genere, età, titolo di studio e altre caratteristiche personali. “Tutte queste caratteristiche possono giocare un ruolo come possibili variabili confondenti, ovvero possono influenzare sia la decisione di praticare lavoro a distanza sia i comportamenti individuali che possono incidere sull’ambiente. È bene dunque tenere questi aspetti in considerazione al fine di isolare l’effetto di interesse”.
Jasmine Natalini