Giocare e apprendere (o studiare) sono attività spesso interpretate come contrapposte, inconciliabili e sicuramente non sovrapponibili, nel tempo e nello spazio.
C’è invece un movimento di studio e ricerca che sempre più riconosce la validità e l’efficacia di questo apparente ossimoro. Si parla di “didattica ludica”, ovvero dei metodi per proporre, nel mondo della scuola e non soltanto, l’imparare giocando. Un concetto in fondo antico – già i latini parlavano di docendo ludere – ma in tempi molto più vicini a noi approfondito, studiato e “sistematizzato”. Abbiamo chiesto a Liliana Silva, ricercatrice in pedagogia sperimentale all’Università degli Studi di Messina, che collabora con il Game Science Research Center della Scuola IMT a vari progetti, di spiegare che cosa si intende per didattica ludica.
Quando nasce l’idea di insegnare attraverso il gioco?
Anche se non veniva definita con i termini attuali, se ne parla fin dagli inizi del Novecento, con alcuni autori che utilizzavano metodi e approcci che oggi definiremmo di didattica ludica. Friedrich Froebel, per esempio, inventore del kindergarten, il “giardino d’infanzia”, utilizzava i cosiddetti “doni” – costruzioni, tessere, piccoli oggetti di legno – per supportare lo sviluppo della motricità fine dei bambini. Un altro esempio sono i materiali di Maria Montessori: strumenti prettamente didattici, che richiamavano e richiamano il mondo reale da una parte e l’espressività ludica dall’altra, tanto da essere ancora considerati come giochi dalle recenti case di produzione.
Qual è invece la visione contemporanea?
Più precisamente, oggi si parla di approccio ludico quando il gioco è fine a se stesso, di approccio ludiforme, quello che stiamo considerando, in cui il gioco è utilizzato per altri scopi, per esempio l’apprendimento. Inoltre oggi tendiamo a pensare che l’approccio ludiforme all’apprendimento non vada limitato alla scuola e all’infanzia, ma riguardi tutto l’arco e tutti gli ambiti della vita. Si parla infatti di lifelong learning e di lifewide learning.
In che cosa consiste la gamification applicata alla didattica?
Per gamification intendiamo l’utilizzo di regole che provengono dal mondo del gioco, e che vengono utilizzate in contesti che non hanno a che fare con il gioco, per esempio nel mondo scolastico e nella didattica, per motivare verso nuovi apprendimenti. Il periodo pandemico ha moltiplicato esponenzialmente questo approccio, per mezzo di applicazioni e piattaforme che hanno permesso – nell’ambito della didattica a distanza – di mantenere da un lato il collegamento docente-studenti, dall’altro di favorire l’attenzione all’interno di un contesto dove la dispersione è certamente elevata.
Quali sono le principali competenze che si possono apprendere meglio attraverso il gioco che con gli approcci più tradizionali?
Sono moltissime: competenze disciplinari, comunicative, strategiche, metacognitive, di iniziativa, relazionali, etiche, attentive… e potremmo definirne anche altre. Il gioco consente di supportare l’apprendimento di tali competenze per mezzo di un approccio motivante, che garantisce il coinvolgimento del soggetto e consente così un apprendimento più significativo rispetto quello tradizionale. Una cosa va detta: grande importanza deve essere attribuita al momento di debriefing al termine del gioco, ovvero quando i giocatori sono invitati a riflettere su quanto appreso per mezzo del gioco stesso.
Che progetti che sfruttano questo approccio esistono in Italia?
Per ora sono in corso molte esperienze, piccole ma diffuse. “Numeri e pedine”, per esempio, ha coinvolto insegnanti di tutta Italia della scuola primaria in un progetto di ricerca condiviso con due ricercatori. Lo scopo è quello di migliorare la didattica della matematica, per ora nella scuola primaria, attraverso la proposta di alcuni giochi da tavolo utilizzati dagli insegnanti in classe e discussi in momenti successivi con i ricercatori. I risultati al momento sono molto interessanti. Nel contesto italiano, inoltre, è significativo il lavoro svolto da “0-99”, un progetto che usa il gioco in ambito riabilitativo ed educativo.
Chiara Palmerini