La nostra salute dipende anche dalla salute della complessa e numerosa comunità di microbi che popola il nostro intestino, il cosiddetto microbiota. Questo termine indica l’insieme di microrganismi – batteri, funghi, virus – che popola e colonizza un determinato ambiente. Sappiamo che il microbiota umano è molto ricco: ciascuno di noi ospita una quantità di batteri (circa 38 mila miliardi) pressappoco 1,3 volte più numerosa rispetto al numero di cellule che compongono il nostro organismo (circa 30 mila miliardi). Normalmente, il rapporto del nostro corpo con questi microrganismi che regolano molte funzioni fisiologiche, dall’attività metabolica al sistema immunitario fino – si pensa – alcuni stati psicologici, è sano. Ma in alcuni casi questo equilibrio può alterarsi, aumentando il rischio di malattie.
Per studiare il microbiota, comprendere in che modo può alterarsi, e come si possa intervenire per ripristinare le condizioni di salute, un approccio innovativo è fornito dalla network science, disciplina che si occupa di rappresentare un sistema complesso attraverso le reti, permettendo di analizzare i network e le relazioni tra i vari elementi del sistema, in questo caso i microrganismi che costituiscono il microbiota.
Mirko Hu, ricercatore alla Scuola IMT Alti Studi Lucca, ha applicato questo approccio alle malattie infiammatorie croniche intestinali, studiando come l’alterazione del microbiota può influire sul loro sviluppo. Nel lavoro per la sua tesi di dottorato, Hu ha infatti analizzato i network che si instaurano tra i batteri ospiti dell’intestino umano, confrontando le relazioni in un microbiota di un intestino in salute con quelle di un microbiota in presenza di malattie infiammatorie croniche intestinali come il morbo di Crohn e la colite ulcerosa.
Come interagiscono discipline come la network science e la medicina nello studio del microbiota intestinale e delle sue malattie?
Il microbiota può essere rappresentato a diversi livelli, sia dal punto di vista delle reazioni chimiche che avvengono al suo interno, sia da quello delle relazioni tra batteri. Inoltre, è possibile confrontare come i batteri si relazionano in un microbiota intestinale “sano” rispetto a uno “malato”. Nella mia ricerca, mi sono concentrato sulla colite ulcerosa e sul morbo di Crohn, due malattie caratterizzate da infiammazione dell’intestino.
Che osservazioni sono emerse dalla ricerca?
I nostri risultati hanno riguardato in particolare i pathway metabolici prevalenti nel microbiota, ossia le principali sequenze di reazioni chimiche per la produzione di sostanze utili al metabolismo. Un risultato importante ha interessato un genere di batteri chiamato Bacteroides, molto presente nel microbiota dei mammiferi. Dalla ricerca è emerso che questi batteri, a seconda delle condizioni in cui si trovavano (intestino sano, intestino con morbo di Crohn o intestino con colite ulcerosa), condividevano o meno dei pathway con altre specie.
Inoltre, Escherichia coli, una particolare specie di batterio che popola normalmente l’intestino umano, nelle diverse condizioni analizzate si relazionava diversamente con i batteri della specie Bacteroides fragilis. Negli intestini sani e con colite ulcerosa le due specie presentavano diverse reazioni metaboliche in comune, ma non nell’intestino affetto da morbo di Crohn. Inoltre, nel microbiota di un intestino malato, la reazione centrale è risultata la sintesi del coenzima A, una sostanza che riveste un ruolo fondamentale nel metabolismo e nella trasformazione degli acidi grassi in energia. Si sa che un’alterazione nella loro produzione è fra l’altro legata a malattie infiammatorie croniche intestinali. Nel microbiota di un intestino sano invece, la reazione centrale è risultata la degradazione dello stachiosio, uno zucchero oligosaccaride contenuto in alcuni legumi. Il pathway coinvolto porta alla formazione di un’altra sostanza, l’UDP-glucosio, riconosciuta come un potenziale strumento biologico di difesa contro l’Escherichia coli nelle condizioni in cui può causare patologie.
Ci sono all’orizzonte applicazioni cliniche che si possano trarre da queste ricerche?
Questo metodo ci permette innanzitutto di ottenere una mappa completa delle interazioni tra batteri, in modo da poter intervenire sulla produzione di certe sostanze, mirando a riportare il microbiota in uno stato di simbiosi. In futuro, si potrebbe pensare di creare una sorta di “gemello digitale” del microbiota umano, ovvero una versione digitale che ne simuli la complessità e gli elementi patologici, così da poter testare quali sono le sostanze che interagiscono con lo specifico microbiota.
Marco Maria Grande