Al museo, guardando la morte in faccia

L’esposizione dei resti umani nelle istituzioni museale è al centro di un progetto di ricerca della Scuola IMT.

L’esposizione di alcune mummie nella sala “Alla ricerca della vita” al Museo Egizio di Torino.

Al primo piano del Museo Egizio di Torino è stata inaugurata a fine 2021 una sala intitolata “Alla ricerca della vita. Cosa raccontano i resti umani?”. Al suo interno, una teca con condizioni ambientali strettamente controllate costituisce il nuovo deposito in cui vengono conservate le mummie del museo, ma anche una vetrina per ammirare reperti che fino a pochi mesi fa giacevano nascosti alla vista nei magazzini. Sono esposti sei individui di età diverse – la prima è un feto probabilmente nato prematuro, l’ultima una donna cinquantenne, età di avanzata maturità per il tempo – attraverso cui si ripercorre il rapporto della cultura egizia con la morte in tutte le fasi della vita. L’esposizione di mummie, umane e animali, non è certo una novità al Museo Egizio di Torino, che le ha messe in mostra fin dai primi decenni dell’Ottocento, ma certamente nuova e inedita, almeno per il nostro paese, è la cornice in cui la sala è stata pensata e progettata: esponendo questi artefatti, i curatori del museo intendono infatti anche affrontare il più ampio tema dei risvolti etici dell’esposizione di cadaveri e resti di defunti.

I resti umani, infatti, hanno uno status particolare tra i reperti di un museo. Studiandoli con varie tecniche, i ricercatori possono fare avanzare le conoscenze sulla genetica e l’evoluzione umana, sulle malattie e le cause di morte, la demografia, la cultura o le pratiche di società del passato. Ma, quando si parla di resti e ancor più di corpi interi di defunti, i reperti si caricano anche di forti valori simbolici, colpendo spesso la sensibilità dei visitatori, mettendoli a confronto con la loro idea di spiritualità, e suscitando riflessioni sulla morte. Quello dell’esposizione dei resti umani è un tema di cui il pubblico dei musei ha ancora scarsa consapevolezza ma che è molto caldo tra gli addetti ai lavori. Proprio grazie alla collaborazione del Museo Egizio e di altre istituzioni, Nicole Crescenzi, dottoranda in beni culturali alla Scuola IMT, sta conducendo la sua ricerca.  Il titolo del progetto è “Esporre i resti umani: un dibattito trasversale tra etica, museologia, archeologia e diritto”, sotto la supervisione di Maria Luisa Catoni, professoressa di archeologia.

Il dibattito sull’esposizione dei resti umani nei musei ha radici che risalgono alla fine dell’Ottocento. “In quell’epoca, soprattutto nei paesi con forte impronta coloniale, è iniziato il tentativo di dare una ovviamente falsa giustificazione scientifica all’idea che esistano diverse razze umane esponendo corpi di individui appartenenti a popolazioni indigene”, spiega Crescenzi.

Soprattutto negli Stati Uniti, in Canada, Australia e Nuova Zelanda, a partire dagli anni 70 del Novecento, questo approccio è stato duramente contestato e criticato, e il movimento ha portato all’introduzione di leggi e regolamenti che proibiscono lo sfruttamento a scopi di razzismo dei corpi e della cultura indigena. Negli Stati Uniti, per esempio, il Native American Graves Protection and Repatriation Act, approvato nel 1990, stabilisce che i resti umani e gli oggetti venuti alla luce nei cimiteri delle comunità indigene rimangono di loro proprietà, e impone inoltre ai musei di restituirli nel caso in cui vengano chiesti indietro dai discendenti delle tribù di appartenenza.

Nell’ambito di questo dibattito nel contesto post-coloniale, alcune istituzioni museali hanno poi iniziato a interrogarsi sulla liceità di esporre resti umani, di qualunque tipo e per qualunque scopo, sulla percezione che il pubblico ricava dalla vista di vari tipi di resti, da ossa a uno scheletro, parti di organi e tessuti, oppure cadaveri interi, e in generale sugli scopi per cui può essere o non essere lecito esporre i resti di persone defunte in un museo.

Ne sono nate ricerche, documenti e linee guida adottati in musei e istituzioni culturali di vari paesi, ma manca ancora una analisi complessiva di tutti gli aspetti del dibattito, da quelli dell’etica e del diritto fino a quelli scientifici e culturali. Produrla e metterla a disposizione è lo scopo dello studio avviato alla Scuola IMT. La prima fase del progetto è stata la raccolta delle percezioni del pubblico tramite un questionario online che ha prodotto 1.250 risposte. I dati saranno presto pubblicati, e forniranno agli addetti ai lavori indicazioni sui pensieri e le reazioni da parte dei visitatori alla vista dei resti, che potranno eventualmente essere utilizzati anche per indirizzare le modalità di esposizione o per progettarne di nuove. “Quello che si può dire fin d’ora è che la maggior parte delle persone che ha risposto al questionario non sapeva neppure dell’esistenza di un tale dibattito” dice Crescenzi. “Emerge chiaramente anche che la percezione del pubblico è diversa per diversi tipi di resto. Un conto è se si tratta di capelli e tessuti, di ossa, oppure di un corpo intero, come nel caso delle mummie. Molti si sono però detti d’accordo sulla necessità di affrontare la questione, e di stabilire regole e principi che guidino anche da un punto di vista etico l’esposizione dei resti umani”.

In Italia siamo un poco più indietro rispetto ad altri paesi europei nell’affrontare questo dibattito, e nello sviluppare questa sensibilità, però c’è fermento e interesse per l’argomento. Ne sono testimonianza esperienze come quella del Museo Egizio, o la conferenza organizzata nel 2019 in collaborazione tra Torino e il Parco Archeologico di Pompei. E anche le molte risposte da parte di musei cui è stato inviato il questionario.

La ricerca della Scuola IMT proseguirà con questionari dal vivo raccolti in alcuni musei europei, e con la comparazione dei regolamenti di diversi paesi.

Le indicazioni che emergono dalle limitate ricerche sul campo esistenti sono di “trattare con rispetto” questi resti, di non esporli se non necessario per scopi didattici o educativi, di evitare di utilizzarli come richiamo morboso per il pubblico. Di lasciarsi guidare, insomma, progettando l’esposizione, da una domanda: come ti sentiresti se tra mille anni il tuo corpo o parti del tuo corpo fossero esposte nella teca di un museo? Ciascuno avrebbe probabilmente una risposta diversa da dare, ma quello che gli studiosi in questo campo intendono sottolineare è che è importante porsi la domanda. 

Chiara Palmerini

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